sabato 30 gennaio 2010

"La prima cosa bella" di Paolo Virzì


L’hanno già visto quasi tutti, i miei amici, e si dividono tra gli entusiasti e i meno convinti. Io, prima di stasera, ho tentato due volte senza successo, perché i posti erano esauriti: elemento, questo, che di solito mi fa diffidare di un film. Si fa buio in sala e mi coinvolgo subito, fin dalle prime battute, suoni e immagini. Non appena le lacrime cominciano a intrecciarsi con le risate mi pento di avere scelto l’ultimo orario, quando le difese sono allentate e la notte piena spinge a lasciarsi andare alle emozioni. Mi chiedo se l’immediato e intenso coinvolgimento che provo sia dovuto al sapore così toscano del film, cioè, essendo io toscana, alla possibilità di sentirmi catapultata improvvisamente nella mia stessa infanzia, ma osservando la persona che è con me, non toscana, mi accorgo che è commossa altrettanto. Ci si identifica, penso, perché nessuno dei personaggi è a tutto tondo, buono o cattivo, forte o debole, ma tutti quanti mostrano le proprie luci e le proprie ombre, appaiono dipinti di colori contrastanti e contrastanti si mostrano anche i loro sentimenti, le loro emozioni, le loro spinte a scegliere o a lasciarsi agire dal destino. Sono persone vere, sono i tuoi amici, i tuoi cari e tu stesso nei momenti aspri o leggeri della vita. Vorresti prendere i personaggi per mano uno a uno e accompagnarli a guardare con occhi diversi ciò che si presenta come ineluttabile, drammaticamente ostile, incomprensibilmente crudele. Il figlio maggiore, per esempio, avvolto in un mantello di gelo che solo sembra poterlo proteggere e, paradossalmente, scaldare. L’amore, le carezze, la vitalità che intravede negli altri sembrano quasi ucciderlo, poiché non si sente autentico in alcun modo, né guardando né chiudendo gli occhi, né fuggendo né restando, fino al momento finale nel quale segue il consiglio della madre, ultimo dono di vita di lei, e si immerge nelle acque del mare familiare della sua infanzia, riconciliandosi, finalmente, con il proprio passato.

Vengono in mente i tanti studi sui sentimenti contraddittori che ispira la madre al bambino molto piccolo, stupito, affascinato e spaventato insieme dal potere emozionale che lei esercita su di lui. Lo psicoanalista Donald Meltzer ha intitolato un suo libro sull’argomento proprio “Amore e timore della bellezza” e ha individuato l’origine di quello che lui e altri, in seguito, hanno studiato come “conflitto estetico”, nei sentimenti suscitati dal guardare il volto della madre, sottoponendosi al suo fascino ambiguo. Il volto della madre è bellissimo e terrifico insieme e non è solo da guardare: è odore che ti inebria, è capelli che ti sfiorano le guance nell’abbraccio, è sorriso che ti accoglie ed è voce ammaliante di sirena che canta e sussurra.

Ma non è così, in maniera accademica e, dunque, necessariamente un po’ distante, che vorrei scrivere di questo film. Un film che parla di noi, di ciascuno di noi: della nostra incoerenza affettiva, delle nostre emozioni complesse, del nostro gettar via, qualche volta, il tempo e lo spazio che abbiamo a disposizione creandoci da soli le catene che ci fanno soffrire o distruggendo ciò che ci rende felici, ma, soprattutto, della nostra confusione e del nostro spaesamento quando ci troviamo di fronte alla perdita, al vuoto e al silenzio e ci sembra di non poter scorgere, in queste esperienze, l’origine di una rinascita, sia pure dolorosa, ma foriera anche di nuove gioie.

Al centro del film c’è una figura di donna bellissima, vitale, autentica nelle sue fragilità e contraddizioni. Anna, lo stesso nome della madre (Annina) che Giorgio Caproni immortala in molte delle sue poesie: una figura anch’essa inusuale e affascinante che appare tra le vie di una Livorno di inizio novecento e le percorre, a piedi o – facendo scandalo, all’epoca – in sella a una bicicletta azzurra, avvolta nel suo scialletto rosso e con la collanina di corallo sulla camicetta dischiusa, tutta odorosa di cipria e di mare.

Nel film quasi tutti i maschi che ruotano attorno ad Anna – il figlio-bambino, il figlio diventato adulto, il marito, quelli che impomatati nei riporti un po’ laidi esibiscono con arroganza il proprio invidioso desiderio – la guardano con ammirazione e la disprezzano insieme. Una delle più commoventi scene è quella nella quale, cacciata di casa dal marito geloso, respinge indietro le lacrime e canta attraversando la notte la canzone che dà il titolo al film, in cerca di un riparo per sé e per i suoi piccoli; mentre li protegge con braccia che si fanno mantello e sembrano ali con le quali poter volare lontano da ogni cattiveria; l’altra è quella sul letto di nozze e di morte insieme, quando la vitalità di lei sembra quasi donarle la forza di uscire, leggera, dal proprio corpo morente e danzare morbida e sensuale, sorridente e carezzevole, sulle note dello struggente Intermezzo di Cavalleria Rusticana di Mascagni. Un brano che sembra racchiudere in sé, intensamente, tutto il senso film, esprimendo insieme nostalgia, cioè dolore del passato e speranza e voglia di aprirsi di nuovo alla vita.

Quando torno a casa i miei passi risuonano, uno dopo l’altro, ritmati, nel silenzio; il rumore dei tacchi sul selciato di solito mi infastidisce, ma questa volta mi consola: è il segno tangibile di una presenza viva, proprio la mia, e mi accompagna attraverso il nero della notte insieme all’immagine consolante di Anna: una piccola donna felice di vivere e capace, nonostante tutto e persino nel momento della morte, di amare e di godere delle cose belle e buone del mondo.

Stringendosi nello scialletto

scarlatto, ventilata

passava odorando di mare

nel fresco suo sgonnellare.

Livorno le si apriva

tutta, vezzeggiativa:

Livorno, tutta invenzione

nel sussurrare il suo nome.

Prendeva a passo svelto,

dritta, per la Via Palestro,

e chi di lei più viva,

allora, in tant’aria nativa?

(...)

Giorgio Caproni

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