domenica 31 gennaio 2010

‘Il nastro bianco’ e la (disumana) catarsi finale


Torno sul ‘Nastro bianco’ di Michael Haneke, che, sollecitato dal bel post di Antonella, ho visto nel cinema di Silvano Agosti, prima che uscisse dalle sale. È sicuramente un film costruito e rappresentato a regola d’arte anche nei volti e nelle espressioni degli interpreti che ci introducono realisticamente agli inizi del secolo scorso. Tuttavia, nonostante la narrazione scorra quasi sempre con fluidità, si viene colti da una sensazione di pesantezza non tanto per i crimini che si succedono senza scoprire i responsabili (a dispetto dell’intenso controllo sociale), quanto per i rapporti interpersonali, non solo freddi e formali ma anche impregnati di spietata perfidia, che forse emerge essenzialmente proprio laddove non appare violenza fisica: nel rapporto fra il medico e la levatrice.
Ne esce fuori un microcosmo freddo, congelato, asfittico. Sarà lo specchio dei nostri giorni?, visto che la letteratura, il cinema, l’arte in genere, quando ci raccontano il passato ci parlano anche del presente?

In ogni caso questo tipo di realtà sociale rigida, gerarchica, oppressiva, permeata da rancori, diffidenza e legata all’ambiente naturale, mi ha riportato alla mente il mondo del pastori sardi, raccontato nel suo romanzo autobiografico ‘Padre padrone’ da Gavino Ledda. Una vicenda che comincia nel 1944, quando Gavino non ha ancora sei anni, dunque cronologicamente più vicina a noi. Si tratta di un vero e proprio trattato di pedagogia, come ci dice il sottotitolo: ‘L’educazione di un pastore’. Ma in tale contesto il ricorso alla violenza fisica, oltre ad essere un normale strumento pedagogico spesso abusato, al contrario di quanto avviene nel ‘Nastro bianco’, ha sempre un senso (sicuramente sbagliato ai nostri occhi) in relazione all’arcaico codice d’onore dell’ambiente rurale sardo che sembra rimanere escluso dalla ‘giustizia’ dello Stato; si tratta spesso di vendette che animano i racconti degli anziani, le quali, come tutte le faide, non si esauriscono con la morte dei contendenti ma si trasmettono alle generazioni future. Invece guardano il film di Haneke si ha la sensazione di delitti malati, assurdi, laceranti, sintomo di un disfacimento sociale e morale.



A mali estremi estremi rimedi, sembra volerci dire il regista austriaco nel finale: solo un male assai più grande può sanare queste misteriose, inquietanti brutalità, e la paventata guerra, finisce per essere l’unica soluzione in grado di rimuovere gli orrori di quel piccolo borgo perduto nel profondo nord della Germania, ancora pervaso da logiche feudali. La guerra appena accennata nel film, rapportata a una dimensione individuale, quasi diviene simile ad una forte influenza o un altro malessere fisico temporaneo, che ci allontana (o guarisce?) da un periodo di preoccupazioni, d’inquietudine, di stress. Stiamo parlando del primo conflitto mondiale, di quella stessa Grande Guerra che inonda il finale del capolavoro di Italo Svevo, quella che guarisce l’annosa, forse innata, malattia della ‘Coscienza di Zeno’, contro la quale la psicoanalisi si era rivelata del tutto impotente se non dannosa; in una Trieste che apparteneva all’Impero Asburgico, la stessa Austria del regista Michael Haneke. Forse è anche in questi aspetti (che andrebbero meglio scandagliati), che si può annidare il fascino, purtroppo ancora perdurante al di là di interessi economici e politici, verso la più assurda, tenace, dis-umana manifestazione dell’uomo.

Nessun commento: