martedì 11 novembre 2008

Un nuovo familismo amorale


"Le basi morali di una società arretrata" è il titolo del testo che Edward Banfield pubblicò nel 1958, dopo un’analisi sul campo sufficientemente lunga. Egli, infatti, si stabilì per un certo periodo di tempo a Chiaromonte, paesino della Lucania (nel testo ribattezzato come “Montegrano”) connotato da povertà e arretratezza estreme. L’antropologo americano notò come a Chiaromonte-Montegrano ci si garantisse la sopravvivenza ragionando solo in termini di “famiglia” e senza coltivare alcun senso della cosa pubblica e del bene comune. Da allora, l’espressione che egli aveva coniato per descrivere tali dinamiche socio-antropologiche (“familismo amorale”) ha assunto significati diversi ed è ancor oggi utilizzata per definire ogni situazione nella quale il bene della propria famiglia si faccia pretesto per giustificare ogni comportamento lesivo nei confronti di chi non appartenga ad essa.

Parentopoli non è che una delle possibili espressioni di questo tratto distintivo dell’italianità; dell’italianità tutta, non di questa o quella categoria di persone. In campo sanitario, nel mondo dello spettacolo, dell’arte, in quello della politica, della cultura e dello stesso giornalismo, i comportamenti tesi a trasmettere titoli e mestieri alla propria discendenza sono sotto gli occhi di tutti.
Anche l’università, certo, ne è stata inquinata, soprattutto in determinati contesti geografici circoscritti e ormai identificati da alcuni anni. L’università non è un’isola felice e non è neanche, quella che conosciamo, la migliore possibile. Però reputo un insopportabile strumento di discriminazione quello del generalizzare. Ci sono, qui come in altri contesti professionali, alcuni fannulloni e altri corrotti, ma non sono la maggioranza.
La generalizzazione (sono TUTTI fannulloni, sono TUTTI corrotti) avallata spesso dalla stampa e in generale dai media, serve – per quanto riguarda l’Università - per creare uno stigma sociale che renda possibile, con il consenso dei più, ridurre al silenzio uno dei luoghi nei quali si potrebbe ancora costruire e offrire cultura e, dunque, incoraggiare il libero pensiero e la capacità critica.

6 commenti:

carlo santulli ha detto...

Sono d'accordo con te, Antonella, però quel che mi sorprende non è che si generalizzi (purtroppo i mezzi di comunicazione di massa lo fanno spesso, almeno qui da noi, ed anche certi politici), ma la vasta accettazione od acquiescenza (che ai fini pratici produce gli stessi risultati) dell'opinione pubblica.
Cos'è successo? E' solo l'effetto del martellamento mediatico o c'è un'insofferenza più profonda verso l'università e la cultura in generale?

maria antonella galanti ha detto...

Credo che si tratti di un'integrazione di entrambi i fattori e che l'uno rafforzi e incoraggi l'altro. Anche oggi su repubblica c'è l'ennesimo pseudoscoop sull'argomento parentopoli all'università, con la solita (ma sono anni che si sa) università di Bari e qualche altro esempio; come se si trattasse di un fenomeno che trova in questo ambito la propria massima espressione! E i giornalisti? Non ci sono tra loro i figli, le mogli, i ni(ne)poti e compagnia cantante?
In questi giorni ho raccolto involontariamente molti aneddoti sull'argomento "odio per la cultura" che coinvoge, naturalmente, anche i docenti di tutti gli ordini e gradi. Ci sono dei bar che utilizzavo da anni per un caffé o un tramezzino veloce e non riesco a metterci più piede per i commenti tra avventori e gestori che ho sentito...La cultura è vissuta ormai da quasi tutti come un mezzo per raggiungere altri scopi e si sta perdendo l'idea che sia importante di per sè, che debba essere, voglio dirlo provocatoriamente, anche fine a se stessa e non "utile". Non produce oggetti, cose: ma consola, incoraggia, permette di recuperare quello che di volta in volta perdiamo di noi o degli altri, ci lascia regedire introspettivamente e ci fa immedesimare con ogni condizione di diversità e distanza altrimenti irraggiungibile. E' inutile, come la poesia, il teatro, la musica e i giochi dei bambini e proprio per questo, dunque, indispensabile

carlo santulli ha detto...

Giusto: parliamo di attori, p.es. Già una quindicina di anni fa, ero abbonato ad un teatro romano, e gli attori della stagione erano quasi tutti "figli d'arte", ma nessuno si chiedeva, e si chiede, se se lo meritassero.
E la risposta che ha dato il prof. dell'università di Messina sull'atmosfera che si respira in casa e che rende ai figli dei professori più facile diventare professore, la trovo condivisibile.
D'altronde, rovesciando il discorso, io non saprei da dove iniziare per fare l'attore, dato che non ho parenti né amici prossimi che facciano questo mestiere.
Ma non è questo il punto, qualche professore meno preparato di altri ci sarà sempre (c'è in tutto il mondo, immagino: non è che all'estero siano tutti premi Nobel...). Il vero problema è decidere se l'università va sostenuta ed aiutata, perché è essenziale in una nazione che si proclama civile. Io penso di sì.
Mi sembra quel discorso pseudo-economico che ogni tanto rispunta fuori, che una notte in ospedale costa come o più di una passata in un albergo a cinque stelle. E con questo? Qual è l'alternativa: lasciar morire la gente in casa o per strada?
Naturalmente, ove ci siano provati sprechi e corruzione, si intervenga. Ma, per favore, non facciamo fare questo lavoro ai giornalisti (sempre per parlare di competenze necessarie...).

enrico meloni ha detto...

Premesso che concordo nel complesso con le vostre riflessioni, vorrei fare una considerazione di carattere antropologico. Penso che il cosiddetto “familismo amorale” non sia in sé amorale in ogni tempo e in ogni luogo. Infatti se ci caliamo in una società arcaica dove non è presente il concetto di Stato, perché nei fatti lo Stato è assente o si manifesta solo per vessare e reprimere, non possiamo che comprendere un atteggiamento volto in primo luogo a tutelare gli interessi della propria famiglia (o clan), che significa sopravvivenza. Questa, generalizzando, era più o meno la situazione del Sud nei secoli passati, ma anche dopo l’unità della penisola (vedi il brigantaggio meridionale). Purtroppo l’eredità di quel passato è ancora molto presente in alcune zone del mezzogiorno, dove però la difesa della “famiglia” (intesa come associazione a delinquere) assume una connotazione del tutto amorale, e diventa un’aggressione alla società, che – come ci racconta R. Saviano – ormai è operativa su scala industriale e internazionale.

bruno sales ha detto...

Comunque vogliamo chiamarla, la propensione a favorire gli interessi del nucleo (o del clan) familiare di appartenenza, più o meno allargato, non sembra essere una prerogativa solo di alcuni individui, o di alcuni luoghi, o di alcune epoche, quanto piuttosto un comportamento che condividiamo con la maggior parte delle altre specie animali e che forse 'serve' a garantire il maggiore successo possibile a chi è portatore di un patrimonio genetico affine al nostro.
Dunque, nessuno di noi è esente dalla tentazione di creare una situazione di vantaggio per le persone che appartengono alla propria cerchia familiare (figli, fratelli, nipoti, cugini, zii, nonni, partner...)
In quanto 'animali', un simile comportamento da parte nostra è pienamente giustificabile.
In quanto 'esseri umani' dotati di autocoscienza e di regole etiche, la nostra incapacità di sanzionare questo stesso comportamento, profondamente iniquo e fonte di privilegi immeritati, forse non ci rende troppo onore.

Anonimo ha detto...

In effetti, come dice Bruno, il familismo è una tendenza, per quanto insita forse nell'"animalità" dell'essere umano, che non ci fa troppo onore. Il problema a questo punto, secondo me, si allarga: posto che il familismo esiste come tendenza, come fare in modo da neutralizzarne il più possibile gli effetti, onde costruire una società più giusta. E a questo punto, non si tratta soltanto di assunzioni e posti pubblici, ma si tratta di avere il più possibile la persona giusta al posto giusto.
Questo richiede di allargare lo sguardo per vedere, con calma e razionalità, quali siano i modi più adatti per realizzare questo.
E' ovviamente molto più facile (ma alla fine improduttivo) "sparare a zero" che proporre (infatti, è quello che sta succedendo per esempio nel parlare di università, come giustamente Antonella ha evidenziato).